Artist: The Great Old Ones
Title: “Cosmicism”
Label: Season Of Mist Records
Year: 2019
Genre: Black Metal
Country: Francia
Tracklist:
1. “Cosmic Depths (Intro)”
2. “The Omniscient”
3. “Of Dementia”
4. “Lost Carcosa”
5. “A Thousand Young”
6. “Dreams Of The Nuclear Chaos”
7. “Nyarlathotep”
Ormai è più che assodato: in pochi, pochissimi, riescono a restituire in musica il peculiare carattere di atmosferico orrore che ammanta le opere letterarie di Lovecraft quanto i The Great Old Ones.
Se poi si circoscrive la selezione all’ambito Black Metal, nonostante l’inclinazione esiziale di un genere che sulla carta ben si dovrebbe prestare a certe sensazioni, è possibile che il quintetto di francesi sia in realtà l’unica band in assoluto ad arrivare, con la sua ricercata personalità espressiva, a ricreare con una simile nitidezza quella tessitura psicologica dell’incubo che tanto ha fatto presa tra gli amanti della musica dura fin dagli anni ’80.
Iron Maiden, i Metallica poco più tardi, senza dimenticare i Morbid Angel; solo a citare i primi tre nomi tutelari nei rispettivi sotto-generi che balzano alla mente ci si rende facilmente conto di quanta influenza le visioni letterarie e gli archetipi lovecraftiani (con relativo immaginario mitico, in particolare) abbiano esercitato, trovando terreno d’incredibile fertilità lirica qualora alla ricerca di metafore per espiare, scanalare una certa oscurità interiore o mentale – di conseguenza, ispirando un genere irrequieto come il Metal nel suo più ampio spettro. Ma la fascinazione limitata a sporadici quand’anche non singoli episodi di citazione o riferimento sostanzialmente irripetuti trova proprio nei pionieri del Death Metal made in Florida, in questo senso fin dal 1989, i primi interpreti auto-dichiarati degli abomini di desolazione sacrificati su altari di follia, del culto per l’arabico libro dei morti, nonché i primi effettivi medium della voce degli antichi narrati -e allo stesso tempo temuti- dallo scrittore francese.
Non serve arrivare alle dichiarazioni di un giovane Trey Azagthoth che sente le bestialità demoniache lovecraftiane parlare tramite i suoi assoli, climax espressivo di un’arte con l’iniziale maiuscola per concetto; che il Death Metal si sia sempre prestato alla causa coi suoi toni e con il suo canovaccio stilistico più basso, cupo e gorgogliante del resto del Metal estremo è comprensibile, ma è forse affascinante notare come conclusione della contestualizzazione in atto quanto la poetica dei Morbid Angel (non per caso i più distanti dalle visioni terrene e sanguinosamente corporee del resto del genere) fosse quella più vicina all’astrazione, alla riflessione interiore o esoterica meno materiale, del linguaggio prossimo ad essere riconosciuto come il più nero del Metal.
E pur senza influenze stilistiche dirette (come vedremo, se non altro, mai tali dal porli al crocevia tra le due codifiche più estreme della cosiddetta musica Heavy) i The Great Old Ones trovano il loro spazio esistenziale -musicalmente e liricamente parlando- proprio nella risposta ad un’incomprensibile mancanza nel Black Metal e nell’incorporazione totale del discorso fattosi: naturali portabandiera di un universo letterario che fornisce la materia prima di un concept da scrutare e sviluppare tramite la pubblicazione di album (ad oggi quattro) per maturare ed affinare costantemente i propri mezzi – dapprima nel fenomenale secondo disco “Tekeli-Li” (ancora oggi un picco di difficoltà e sperimentalità da parte della band) e poi nel penultimo “EOD: A Tale Of Dark Legacy”; ottimo punto d’incontro e svolta tra una maggiore approcciabilità, lo sviluppo di gusto melodico e l’inasprimento esecutivo grazie ad uno snellimento delle variopinte influenze contenute nel precedente capitolo.
“Cosmicism”, che dal suo canto offre un nuovo concept-album graziato dalla benevolenza spirituale degli incubi di Howard Phillips, questa volta incentrato sull’orrore esistenziale gentilmente fornito dall’immensità di un cosmo i cui infiniti, imperscrutabili schemi rendono non solo la vita dell’uomo, ma le sue stesse azioni, totalmente ininfluenti al netto di un dipinto di scala ben più ampia, fa ripartire dei rinnovati The Great Old Ones (oggi privi di tre dei membri fondatori e con il già compositore Benjamin Guerry sempre più demiurgo e timoniere centrale del vascello maledetto di coleridgiana figura) dalle intuizioni che avevano reso grande il loro terzo full-length per svilupparle in una nuova ed elettrizzante direzione: il punto d’avvio è senz’altro quell’affilamento che in “EOD” aveva reso i brani più coesi e lo stile del gruppo più immediatamente riconoscibile, favorendo anche una scrittura più diretta, ma a differenza del suo diretto predecessore “Cosmicism” va a ripescare sapientemente la cifra, la morte strisciante, di quelle melodie gelidamente subacquee che nei primi due capitoli venivano sciorinate con perizia dall’uso anomalo delle tre chitarre a briglia sciolta tra loro, sintetizzate, effettate, estremamente riverberate e rese malleabili (irriconoscibili in quanto sei corde) sotto lo sguardo di una visione complessiva di notevolissima fattura. La marea di astrattismo sonoro si alza conseguentemente; un caos di direzioni perfettamente controllate, un’apocalisse ordinata in cui tentacoli ora ronzanti e ora freddi, spettrali e allungati come visioni deformi da lontananze inaccessibili, alza l’asticella del trademark ormai giunto al suo collaudo più incisivo in quanto mai eccessivamente arduo da comprendere nonostante l’estrema complessità delle strutture fatte di immense ramificazioni.
L’abbandono del secondo cantante Jeff Grimal (fortunatamente ancora autore del personalissimo mondo visivo della band) va poi a ridistribuire i criteri dispositivi tra scream e growl, togliendo un ulteriore tassello alla sottile presenza (ma non alla pesantezza) Death Metal nello spettro compositivo del gruppo (l’anello non-mancante che ricollega inevitabilmente una certa proposta lirica ad un lemma stilistico affine e difficile da smarcare completamente), che ad ogni modo resta direttamente aleggiante nei momenti di più grossa imprevedibilità ritmica, nei tratteggi più disarmonici e nell’utilizzo isolato di una chitarra ritmica costantemente vorticosa su toni ribassati e gorgoglianti rispetto agli altri stridenti strati (i primi effettiva raccolta di frutti chitrarristicamente azagthothiani, sebbene anneriti). Il processo riesce efficacemente a rendere il sound ancora più immersivo nel complesso, limando le spigolature tra tempi in un costrutto che riesce a suonare al tempo stesso totale, monolitico nella sua interezza, eppure fortemente caratterizzato e diverso in ogni brano qualora preso singolarmente.
Se i The Great Old Ones premono sull’acceleratore a tavoletta, riescono a mostrare una nuova sensibilità tuonante e quasi epica (l’opener “The Omniscient”, davvero solo un piccolo -si fa per dire- e per nulla rappresentativo antipasto di tutto il meglio che è stipato procedendo con l’ascolto) o ancora più devastante (“Dreams Of The Nuclear Chaos” è in assoluto il brano più breve, veloce, spaventosamente distruttivo e letalmente atonale fin dalla prima rullata, mai scritto dal gruppo); quando rallentano, al contempo, riescono a rendere le sezioni ancora più opprimenti ed importanti – veri e propri motivi d’attesa quando si inizia a conoscere il disco, come accade nell’asfissiante gioiello conclusivo “Nyarlathotep” o nella varietà estrema di “A Thousand Young” (che con i suoi dodici minuti si impone come il secondo brano più lungo dei The Great Old Ones e prima di stupire con virtuosisimi batteristici non si fa mancare una velata citazione alla prima preghiera di “Si Monvmentvm Reqvires, Circvmspice”), ma anche nella cruciale parte centrale della drammatica e tempestosa “Of Dementia” (che -non sola- fa sfoggio di velleità ritualistiche tra cori ed altri sottili accorgimenti atmosferici come mai sentito in precedenza).
Impossibile non segnalare, inoltre, la perfetta costruzione dell’album: un’ascesa totale che permette a “Cosmicism” di essere uno di quei rari dischi in cui ogni brano in arrivo è migliore del precedente, in barba all’altissima qualità dei singoli, facendo registrare un’impennata clamorosa dalla maestosa “Lost Carcosa” in poi, fino al giungimento innanzi alla micidiale tirata nella tripletta conclusiva.
In conclusione, va senz’altro rimarcato quanto “Cosmicism” (in questo senso coerentemente con il resto dell’operato dei The Great Old Ones) non resti soltanto un episodio d’assoluto interesse nell’ambito di una proposta che interpreta l’apparato lirico di lovecraftiana ispirazione con mezzi banalmente non comuni rispetto a quanto è più solito ascoltare, bensì un album di Black Metal dalle atmosfere ormai uniche ed introvabili altrove nel genere. La perizia per cui lo stile del gruppo ha sviluppato sempre più un’affinità sinestetica di sound con il corpus letterario del celebre scrittore connazionale è infatti ad oggi solo una (ulteriore) chiave di lettura a musica che grazie ad originalità, songwriting di livello, impatto e profondità, si nutre di un’anima tutta sua; un motivo d’interesse in più per coloro che sono appassionati degli scritti a cui il gruppo si rifà e cita come base del suo concept, tuttavia -come i grandi di cui fanno parte- assolutamente mai una pre-conoscenza necessaria all’esperienza di angoscia, terrore e malizia che la band offre.
Se difficile restava dunque scegliere con certezza un lavoro migliore tra “Tekeli-Li” ed “EOD” nel 2017, per via di nature e obiettivi ancora troppo diversi ma parimenti splendenti, “Cosmicism” spazza ogni dubbio su quale sia ad oggi il miglior disco dei The Great Old Ones.
– Matteo “Theo” Damiani –